Alla vigilia della raccolta dei kiwi, l’oro verde del saluzzese, torna d’attualità la “batteriosi”, la malattia che rischia di minare seriamente questa coltura, non solo nel saluzzese. Un po’ perché nei mesi estivi la malattia si arresta, un po’ perché i nostri frutticoltori erano alle prese con la crisi di mercato delle pesche, se n’è parlato meno; il problema è però tutt’altro che risolto e la ricerca non si è certo fermata. Nessun problema per il consumo dei frutti, questo va sottolineato, ma la produzione rischia di calare drasticamente nel prossimo futuro per le piante malate da estirpare.
Con il dottor Silvio Pellegrino, direttore del CReSO, il Consorzio di Ricerca e Sperimentazione dell’Ortofrutta piemontese che ha la sua sede operativa a Manta, abbiamo cercato di fare il punto della situazione.
Qual è l’attuale situazione della malattia?
«La batteriosi continua a stupirci per la rapidità di diffusione, in tutti i Paesi dov’è coltivata l’actinidia: in tutta Europa ed anche nell’altro emisfero, Nuova Zelanda e Cile in testa. In quasi tutti i casi è stata trasmessa da materiale vivaistico infetto, non perché i vivaisti siano dei criminali, ma perché hanno venduto piante asintomatiche più o meno in buona fede. Finché non si mettono in atto procedure vivaistiche tracciabili, occorre quindi evitare nuovi impianti e la decisione dell’Assessore Sacchetto di sospendere gli impianti in Piemonte è quindi seriamente motivata nell’interesse della nostra frutticoltura».
Esistono prospettive di cura?
«Quando il psa è entrato stabilmente nella pianta non c’è più nulla da fare. Allo stato attuale non ci sono cure per sradicare il batterio e non c’è nessun prodotto “curativo”, nemmeno in fase sperimentale. Tutti gli sforzi dei ricercatori e dei tecnici sono dunque concentrati sulla prevenzione: evitare che il batterio entri e si diffonda all’interno delle piante sane».
Non sembra un’impresa titanica? C’è una comprensibile reticenza ad estirpare le piante malate.
«Chi non estirpa fa un gran danno a se stesso ed a tutto il territorio, vanificando tutti gli sforzi della difesa, perché le piante malate costituiscono il focolaio di infezione, per la propria azienda e per i vicini. È importante evitare i nuovi impianti, finché l’autorità sanitaria non darà il via libera, perché non ci sono certezze sul materiale vivaistico, in quanto il batterio può essere presente in quantità che sfuggono agli esami di laboratorio. Si sta lavorando sodo a livello nazionale per mettere a punto un protocollo che consenta in 1-2 anni di disporre di piante sane per i nuovi impianti».
Come proteggere le piante non ancora colpite?
«Fortunatamente sono ancora la maggior parte, e su questo si sta concentrando la ricerca. Il Creso, con i tecnici di base, fornisce in ogni momento le indicazioni di intervento, ed a questo bisogna attenersi, evitando il fai da te».
Come sta procedendo la ricerca?
«I test sui nuovi agrofarmaci si fanno in vitro e poi in pianta, a volte con risultati diversi. È stato il caso del rame: in vitro non presenta quasi efficacia, mentre sulla chioma dell’actinidia si trasforma nella sua forma ionica, che è particolarmente efficace contro il Psa: ogni volta che uno ione rame tocca una cellula batterica la uccide all’istante. È bastato che qualche studente raccontasse in famiglia che nelle esercitazioni scolastiche il rame non dimostrava efficacia, perché al bar si diffondesse la voce che il Psa avesse sviluppato resistenza al rame. La ricerca è una cosa seria e va dato retta a chi se ne occupa professionalmente! In questo momento il Creso, oltre alle prove di inoculazione artificiale su piante in serra, è impegnato nelle prove in campo, con tre siti sperimentali allestiti in zone infette, a Verzuolo, Lagnasco e Villafalletto. Sono in prova una ventina di agrofarmaci classici e di nuova generazione, con protocolli che prevedono ripetizioni e combinazioni diverse, a confronto con piante “testimoni” non trattate».
Ci sono già indicazioni utili?
«Gli agrofarmaci oggi disponibili contro il Psa hanno diversi meccanismi di azione: oltre ai rameici, ci sono i disinfettanti igienizzanti, che sono in genere efficaci, ma di breve durata, i batteri antagonisti, cui il Creso sta lavorando con popolazioni fresche studiate appositamente per i nostri ceppi di Psa in collaborazione con l’Università di Bologna e saggiate in contemporanea in Emilia-Romagna, Lazio e Nuova Zelandae gli elicitori di resistenza, sostanze in grado di far tirar fuori le unghie alle resistenze interne di cui la stessa actinidia dispone».
Come dar l’aspirina alle piante…
L’aspirina, o meglio l’acido acetilsalicilico, è un buon induttore di resistenza in condizioni di laboratorio, purtroppo nella pianta non si sposta e quindi è inefficace. Da tempo una nota multinazionale ha messo a punto un sale dell’acido citato in grado di “entrare in linfa”: si tratta del Bion, che abbiamo verificato abbia un discreto effetto, ma che lo stesso produttore non giudica sufficientemente efficace. Ciononostante, alcuni frutticoltori mal consigliati hanno provato ad usare l’aspirina. Risultat non solo alcune piante sono state ustionate perché a certe dosi l’aspirina è fitotossica, ma gli impianti sono rimasti senza protezione. Anche in questo caso, lasciamo al bar le chiacchiere, e seguiamo le indicazioni dei ricercatori. La partita decisiva si gioca sulla conoscenza del rapporto psa/actinidia, per capire come, dove e quando utilizzare i farmaci; si lavora a modelli matematici revisionali, che ci consentano di concentrare pochi trattamenti nei momenti giusti».
Il periodo più critico si conferma quello autunnale?
«Si è visto come i periodi critici siano la raccolta, perché il distacco del peduncolo del frutto è una autostrada per l’ingresso del patogeno e la caduta delle foglie, perché il batterio entra dalla cicatrice del picciol è una fase che può durare più di un mese e non si può intervenire ogni giorno! I danni che vediamo in primavera sono impressionanti, ma risalgono all’infezione dell’anno precedente. A quel punto il frutticoltore cerca di fare qualsiasi cosa, ma è come chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati!» Chiudere la stalla in tempo significa quindi intensificare la ricerca? «In Piemonte è stata creata una task force costituita dal Creso per la ricerca applicata, il Dipartimento Agroinnova dell’Università di Torino ed il Servizio fitosanitario regionale. Si è quindi creata una rete di ricerca per massimizzare i risultati: in questo momento è costituita da Creso, Università di Bologna e Istituto di San Michele dell’Adige, i Centri di ricerca cui fa riferimento l’actinidicoltura del nord-italia. Sono stati adottati protocolli comuni, in modo che i risultati di ognuno siano a disposizione degli altri partner. Inoltre, attraverso l’Università di Bologna che fa da tramite con la Nuova Zelanda, le nostre prove sono inserite nel circuito internazionale che, grazie all’inversione di stagionalità tra i due emisferi, consente di raddoppiare le prove nel corso dell’anno. In questo modo i frutticoltori saluzzesi possono esser certi che qualsiasi risultato importante sarà immediatamente a disposizione del nostro territorio». In conclusione, quali prospettive potranno avere le produzioni di kiwi? «Nel breve periodo dobbiamo mettere a punto una strategia di difesa, quindi, in un orizzonte più ampio, pensare ad una nuova architettura dell’actinidieto, che stiamo già sperimentando a Manta, che permetta interventi fotoiatrici. L’obiettivo nel lungo periodo è invece quello di realizzare nuove varietà resistenti, o almeno tolleranti, alla batteriosi».